A cosa siamo di fronte più che meno lo sappiamo. Un virus forte, anche letale, che ci costringe a stare lontani. Uno scenario di vita che fino a due mesi fa nessuno immaginava. Torniamo indietro con il pensiero. Era più o meno il ventotto febbraio l’ultima volta che sono andato a trovare mia madre. Da li non ci siamo più visti. Abbiamo rispettato il Decreto. Li era ancora “quasi tutto” normale. Dire oggi febbraio sembra di parlare di un secolo fa. Nella mente era ancora inverno, c’era nell’aria l’odore delle frittelle e delle chiacchiere per le sfilate di carnevale, mai celebrate. C’era freddo, ma in realtà neanche troppo.

La mattina facevamo la solita coda per raggiungere il lavoro, ogni giorno in compagnia di quel signore impettito alla guida del suv, quello che superava la coda tra i frastuoni dei clacson. Eravamo automobilisti rassegnati a quei venti minuti di coda accademici o eravamo pendolari in attesa di un treno, utenti arrabbiati e in ansia per i ritardi cronici. Il caffè preso alla svelta, a casa o al bar, era l’input di un altro giorno in cui si era già in ritardo, responso inevitabile delle lancette dell’orologio che segnavano le 7.24. Le 7.20 erano passate. Era necessario rinunciare alla brioche o mangiarla durante il passo accelerato per recuperare tempo e salvarsi dai giudizi impietosi del timbratore. 4 minuti fatali.

Il collega sapeva sempre farci la lezione del giorno, contorcendosi tra le sue supposizioni e le previsioni fatte ma spesso non azzeccate. Il suo ego veniva accontentato da un consenso annuito ma obbligato. Un salvagente anche con quel cliente troppo noioso e petulante per essere reale; annuire la via più sbrigativa per far scorrere meglio un’altra giornata in salita. L’ unica sosta della maratona era un panino da consumare tra le 12,30 e le 13.01, da tenere in una mano mentre l’altra era impegnata dal cellulare per inviare due messaggi su whatsapp. Confermare di essere sopravvissuti alla mattinata era il segno che nonostante tutto eravamo umani. Ultima tappa un giro al supermercato, solo valido per comprendere che due cotolette già impanate erano la soluzione vincente per ricaricarsi di energie e piacere. Un panino, due messaggi su whatsapp e 2 cotolette già impanate la ricompensa.

Eravamo 4 minuti, 2 cotolette e 1 sorriso.

Per alcuni c’ era la sera in cui si faceva sport. Non che ci andasse sempre di sfoggiare un sorriso armonico alle 18.03. Rimarrà uno dei misteri più segreti al mondo come certa gente, a fine giornata, poteva condividere un sorriso tanto pieno quanto leggiadro. Un sorriso te lo strappava qualche programma televisivo dopo il telegiornale. Era la regola. L’umore prima doveva essere affossato dalle tragedie italiane e mondiali. L’umore doveva scendere sotto il tavolo apparecchiato, posarsi ma lentamente sul pavimento insieme alle briciole, ristagnare tra i residui di cibo cascati da aspirare, poi risalire aggrappato alle gambe della sedia, tirato su più da una forza di gravità al contrario che dal programma satirico. Giungeva presto il momento di andare a letto. Le 22.36 di mercoledì non erano uguali a quelle di sabato. Almeno questo non era uguale anche se domenica era lontana. 1 sorriso comunque.

Eravamo 4 minuti, 2 cotolette e 1 sorriso. Eravamo sempre quello, alla fine solo quello.
Il mondo ritornerà a pieno regime. Torneremo come prima. Forse.

Da vedere:10 cose che non saranno più uguali
Stefano Massini

-Un “mi piace” rende libere le persone che scelgono-
Puoi conoscere gli aggiornamenti del sito su Facebook alla pagina andreaariazzi.it

Share This